CASE DEGLIN ASSASINII

Villette e morte: genesi di uno sguardo


Nel 2004 partecipammo a una mostra organizzata dal comune di Reggio Emilia dal titolo Suburbia, curata da Marinella Paderni e Marco Senaldi. Fummo invitati perché l’anno precedente, sempre con Senaldi curatore, partecipammo a un altro evento a Piacenza dal titolo Cover, con una serie di diapositive di villette postmoderne che a partire dagli anni novanta stavano (e stanno) invadendo le periferie delle città e cittadine del nord Italia. Le diapositive, proiettate velocemente sullo schermo, mostravano un’architettura dall’estetica anestetizzata in forza della reiterata ripetizione di stilemi comuni ispirati dall’idea condivisa di felicità piccolo-borghese, figlia di “edifici mediali” quali, per esempio, il Mulino Bianco Barilla. In questo senso il concetto di “felicità” è piuttosto esplicito nella scelta della tipologia di abitazione che deve esprimere tratti distintivi conosciuti e rassicuranti pur cercando di elevarsi a status.

A tal proposito ci colpì un fatto che avvenne durante l’installazione della mostra: un gruppo di signore addette alla pulizia si fermarono davanti alla proiezione e ci chiesero se la bellezza di quelle ville fosse il significato dell’opera. Chiedemmo, a nostra volta, la loro opinione e la risposta fu che erano assolutamente deliziose e desiderabili. Alla successiva domanda di quale casa in particolare, ci fu risposto che una valeva l’altra l’importante era lo stile; lo stile era veramente fondamentale per coronare il sogno.


È chiaro dunque che il concetto di felicità è contenuto in un fare architettonico o forse il fare architettonico si adatta a un immaginario di felicità insito nelle persone. In ogni caso non possiamo evitare di collegare l’estetica alla felicità. Ma quale estetica? E soprattutto, quale felicità? Spesso la casa è un punto di arrivo per esprimere il senso, palpabile e concreto, di posizionamento sociale o meglio di rapporto privilegiato con la società e di conseguenza con la famiglia. Ma ciò genera benessere? Forse, ma a volte genera false speranze perché non è sufficiente l’estetica mediata dalla postmodernità per essere veramente appagati. Qualche volta la malattia si insinua nelle pieghe delle menti pseudo-felici, e genera mostri. La consolatoria idea di bello poiché condivisa, non è sempre salvifica ma può nascondere comportamenti criminali latenti.

Quando proponemmo al comune di Reggio Emilia di proiettare le diapositive esposte nella mostra precedente ci fu richiesto di fare lo stesso lavoro ma sul territorio della sola provincia di Reggio. Così iniziammo a fotografare nella periferia della città e nei comuni limitrofi; finché, utilizzando internet per conoscere esattamente i confini provinciali, ci imbattemmo casualmente in un agghiacciante fatto di cronaca nera av- venuto in una villa a Borzano di Albinea: il colonello delle Fiamme Gialle Renzo Finamore la mattina del 14 ottobre 2002 si alza dal letto, prende una pistola, scende in cucina, spara al fidanzato della figlia, quindi spara alla moglie e, dopo averla legata e sfigurata con l’acido, alla figlia; quindi si suicida. Muoiono tutti. Buona parte dell’efferato avvenimento è ripreso da una telecamera che lo stesso Finamore usa mentre spara.

Cosa ha innescato la follia? I motivi restano piuttosto misteriosi. Si fanno delle ipotesi: anni prima nell’ambito d’indagini legate a tangentopoli, Finamore fu indagato per concussione oltre al fatto che contemporaneamente il colonello sospettava d’infedeltà la moglie. In ogni caso, il suo ideale di vita, coronato dall’acquisto della villa, si trasforma in un fardello economico e morale insostenibile.

Decidemmo di fotografare la villa. Arrivati sul posto vedemmo che l’edificio era in ristrutturazione ma non cambiato più di tanto. Ancora manifestava il desiderio di essere una casa importante. Era domenica, il cantiere deserto. Entrammo da un foro provvisorio nella cancellata e percorremmo circospetti il perimetro della casa. Tutto appariva strano anche se strano non era. Era il nostro sguardo cambiato, non la villa. La villa era “normale”. Troppo normale. Mostrava tratti di vita normale, come quel- la di tutti (o quasi). La legnaia, l’ordinato garage, la fontana di cemento sormontata da una venere, il dondolo. Testimonianze di vita familiare in una tranquilla e ricca provincia emiliana. Eppure l’obiettività dello sguardo vacillò: improvvisamente le mura dell’edificio trasudarono follia. Perché? Perché la realtà esiste in quanto rapporto con essa. Quando cambia lo sguardo, quando cambiano le motivazioni dello sguardo la visione vira, si trasforma sotto i nostri occhi. Fotografammo usando una pellicola diapositiva bianco e nero e inserimmo la foto nella mostra; la proiettammo insieme ad altre quaranta, senza dire nulla a nessuno. Una sola diapositiva che, pur essendo in bianco e nero non venne riconosciuta. Diventò un’immagine subliminale, latente, come la follia che conteneva.

Del colonnello Finamore se ne parlò poco, mentre un delitto compiuto l’anno prece- dente, il 2001, quello di Novi Ligure se ne parlò tantissimo. Un caso mediatico; per non parlare del famigerato caso di Pietro Maso a Montecchio di Crosara, quello di Cogne, di Garlasco, di Avetrana, ecc.

Notammo che alcuni fatti erano comuni a questi omicidi: tutti si svolgevano in una villa; l’assassino (fino a prova contraria) sosteneva che gli omicidi erano stati opera di persone terze, in genere extracomunitari; la persona assassinata era un parente o aveva un legame affettivo con l’assassino. Stabilito a priori queste caratteristiche “lombrosiane”, decidemmo di fotografare le case degli assassinii in un triste work in progress. In sostanza fino al 2014 quando Carlo Lissi uccise a Motta Visconti la moglie e i figli nella villetta di proprietà.

Ci ponemmo subito il problema di come fotografare gli edifici. Decidemmo di evitare qualsiasi contenuto potenzialmente emotivo o drammatico delle immagini. E soprattutto cercammo di evitare l’effetto talk show foriero di morbosità e voyeurismo. Perciò puntammo sull’assoluta normalità delle foto, più o meno come quelle che si vedono sulle vetrine delle agenzie immobiliari. Riprendemmo le ville solo frontalmente, il cielo lattiginoso, assente, nessun contrasto tra luci e ombre, picco - lo formato. In buona sostanza immagini anonime. Come sempre per noi la fotografia non esaurisce in sé retoricamente con- tenuto e/o emozioni ma è (o vorrebbero essere) un detonatore atto a innescare pro - cessi che sono al di fuori della fotografia st- essa. Durante la presentazione della mostra Dei delitti e delle pene a Firenze, un giornalista sostenne che le case fotografate erano cupe e spaventose, il curatore, Pier Luigi Tazzi, gli rispose che la cupezza e lo spavento era - no espressioni scaturite dai fatti sottostanti e non dalle foto, scevre da ogni esibizione drammatica, semmai esibivano “un’agghiacciante normalità”. Ancora una volta lo sguardo modificava la realtà oggettiva.

Ci accorgemmo subito del potenziale pop di questo lavoro. Per esempio sopra la villetta di Cogne c’è un prato lambito da una strada; appena dopo una curva, le persone parcheggiavano l’auto nel prato, nell’unico posto possibile per fotografare la villa con il cellulare. Ebbene si fermarono così tante auto che l’erba si era diradata. Incredibile! Per non parlare di Avetrana dove abbiamo assistito alla grottesca fuoriuscita da un autobus dei famigerati “turisti dell’orrore”. Tutto ciò perché i programmi televisivi si occuparono ossessivamente di questi casi formulando ipotesi, esibendo modellini ed esperti di ogni genere e sorta. La comunicazione divenne così pervasiva da elevare le ville a santuari mediali dell’orrore. E i santuari esigono i loro pellegrini.

La conferma di quanto i drammatici eventi fossero presenti come immaginario di consumo mediatico lo avemmo quando le foto furono esposte in una mostra collettiva alla Triennale di Milano. Il giorno dell’inaugurazione la gente sciamava verso le opere. Prima delle nostre c’erano delle bellissime foto d’architettura urbana di Gabriele Basilico. Le persone si accalcavano per osservarle e spendersi in apprezzamenti che comprendevano questioni tecniche ed estetiche volte a potenziali fini mimetici. Quando poi si avvicinarono alle nostre foto ebbero come un sussulto che nulla aveva a che fare con le questioni fotografiche, bensì alla sorpresa di trovarsi al cospetto di immagini conosciute in altri settori mediatici. Un gruppo di amici iniziarono una specie di gara sfidandosi a riconoscere le varie ville degli orrori. Finché uno di loro disse: «Interessante… ma cosa c’entra con la Fotografia?»

Già cosa c’entra? Probabilmente quella persona aveva ragione, forse non c’entra con la Fotografia. Sicuramente quello che “c’entra” è la reazione di chi guarda. Per noi questo è l’aspetto dirimente per trovare un potenziale artistico al progetto.

Non abbiamo fatto altro che far emergere ciò che la gente conosce come consumo mediatico. La morbosità mista a esorcizzazione della morte trova nell’esposizione mediale il prodotto da consumare in un rito collettivo.  

Esempio fulgido a tal riguardo è il film di Tavernier La morte in diretta in cui una troupe televisiva riprende in diretta gli ultimi giorni di una modella che sta morendo di cancro. La morte come spettacolo.

In ogni caso ciò che a noi interessa è lo sguardo. Il nostro e quello degli altri.

La possibilità di vedere il mondo con “occhi nuovi” trasforma lo stesso. La villa, per effetto dei tragici eventi reiteratamente proposti, si trasforma dalla sua consistenza solida al set virtuale di un’orrorifica serie televisiva coreana. In buona sostanza in un prodotto… non molto dissimile dall’iconica zuppa di Andy Warhol.

 

avetrana

cogne

garlasco

montecchio di crosara

novi ligure

brescia

compignano di marsciano

limidi di soliera

motta visconti