BELLEZZA

di Fulvio Guerrieri e Paola Dallavalle

 

Il filosofo Maurizio Ferraris in una lezione magistrale del 2011 – visibile su YouTube - racconta una storiella di Paolo Buozzi a supporto del Nuovo realismo: «se in un’isola c’è un gran sasso nero e tutti gli abitanti si sono convinti con elaborata esperienza e molto uso della persuasione che il sasso è bianco, il sasso resta nero e gli abitanti dell’isola sono altrettanti cretini». Ineccepibile. Ma noi ci siamo posti il problema di cosa sarebbe successo se gli abitanti della fantomatica isola avessero cambiato il predicato dicendo che «il sasso è bello»; in questo caso ne avrebbero certificato la bellezza senza tema di smentita - perlomeno sull’isola - e la qualifica di cretini sarebbe venuta meno. Questa considerazione non vuole sovvertire la teoria neorealista di Ferraris ma semplicemente evidenzia quanto la bellezza sia dirimente per dare senso all’oggetto senza oggettivare lo stesso, perché, in buona sostanza, la qualifica di “sasso bello” non dice nulla dell’oggetto sasso nel senso che non esprime un’analisi ontologica ma un’opinione, e questa opinione interagisce con l’oggetto medesimo trasformandolo, da sasso nero a qualcosa che, per dirla alla Thomas Mann, “trafigge”. Ma questa sua trasformazione da sasso a Cupido può avvenire solo con la condivisione del pensiero giudicante e per condividere è necessario sapere chi giudica e perché; la consecutio è che il sasso, in questo caso, dice poco di sé ma molto degli abitanti dell’isola.  

Se facciamo un veloce – e molto parziale - excursus sulle teorie filosofiche che cercano di definire la bellezza vediamo che faticano a concettualizzare un argomento che riguarda i sensi, vale a dire che non riescono a giungere ad una definizione applicabile in senso universale nello spazio e nel tempo: per Platone la bellezza è un’idea che coincide con l’amore e come tale non può che risiedere unicamente nell’iperuranio, una meta da anelare come concetto generale e non particolare; per Aristotele la bellezza risiede nella natura, nella perfezione dell’armonia e della simmetria, e per percepirla è fondamentale l’apporto congiunto dei sensi e dell’intelletto; per San Tommaso il bello è ciò che piace ancor prima di conoscere l’oggetto che lo sprigiona, anche se questa peculiarità dell’oggetto aiuta a conoscerlo e quindi per estensione a conoscere la realtà; per Sant’Agostino la bellezza è rivelazione con una valenza ambigua perché con la sua forza può avvincerci sia nel bene che nel male, ma necessaria per elevarsi a Dio; per Plotino la bellezza è forma, ma a differenza di Aristotele l’arte non imita solo la natura, pur operando in modo mimetico,  è anche creazione: «… Fidia creò Giove, senza seguire alcun modello sensibile, ma cogliendolo quale sarebbe stato, se avesse voluto apparirci alla vista», purtuttavia l’arte, dal momento che imita le forme della natura, non è in grado di raggiungere il bello intelligibile poiché non può superare il mondo sensibile che è immagine di quello trascendente (Platone),  ma è un primo passo verso il bello ideale; per Kant la bellezza è un giudizio estetico che, oltre a generare un piacere,  esprime una forte relazione tra il soggetto percepente e l’oggetto, ma che, in ogni caso, non permette la conoscenza dell’oggetto medesimo (come espresso pocanzi) e rimane nascosta nel processo della sua genesi senza rivelarsi razionalmente, in sostanza per Kant il bello non ha né oggetto né concetto.

Le interessanti teorie filosofiche accennate, pur nella loro fascinazione logica, non riescono - o non possono - fornire un approccio metodologico universale alla bellezza che in ultima analisi pur essendo anelata dall’umanità poiché pilastro dell’esistenza, esattamente non sappiamo cosa sia.

Se da una parte gli antropologi sostengono che la bellezza esiste in quanto forma ancestrale di “sensazione piacevole” legata a ciò che è utile per l’esistenza in seno all’evoluzionismo, dall’altra non possiamo non riconoscere che tale presupposto non sempre regge quando l’evoluzione delle società complica i paradigmi. É ovvio che i genitori ritengano universalmente “bello” il viso roseo del loro bambino che incornicia grandi occhi e il profumo inebriante che emana, ma questo succede come inconscia strategia di sopravvivenza messa in atto dal bambino medesimo per sopravvivere. D’altra parte è altrettanto ovvio che il concetto di bellezza legata al corpo cambia, anche in maniera radicale, in relazione ai gradi di approvazione della società in cui si vive. Questo cambiamento di opinione si sposta nel tempo, un po’ meno nello spazio da quando la globalizzazione ha imposto standard universalmente riconosciuti.

Interessante a tal proposito azzardare il concetto di “colpa” che scaturisce dal “bello”. Abbiamo letto un’interessante ricerca antropologica di tale Anne E. Bechker che, nel 1982, si recò nelle isole Fiji e scoprì che la felicità degli abitanti era anche da ricercare nell’importanza culturale che rivestiva il cibo. In luoghi dove gli alimenti scarseggiavano, chi poteva godere di pasti abbondanti e quindi ingrassare veniva ritenuto “bello”. Quando alla fine degli anni novanta si reca di nuovo sulle isole Fiji rimane scioccata nel vedere che la televisione, ormai diffusa in quasi tutti i nuclei familiari con il suo portato mediatico occidentale, influenza così tanto la popolazione da cambiare il paradigma di felicità e benessere legato al bello come grasso a favore del suo contrario. La Bechker registra un aumento dei disturbi alimentari tra le ragazze che reiteratamente si provocano il vomito. Questo comportamento è legato alla “colpa” (sosteniamo noi) di voler introdurre cibo in conseguenza di un’istanza culturale che improvvisamente, in forza dei mutati modelli estetici di riferimento, non ha più senso.

Notoriamente etica ed estetica sono due facce della stessa medaglia. Pertanto se si considera ciò che le persone anelano per perseguire un’esistenza “bella” in relazioni al proprio concetto etico come motore dei comportamenti e delle decisioni non possiamo non dimenticare le responsabilità che questo “orizzonte estetico” comporta, e queste responsabilità, in una prospettiva storica, a volte si possono trasformare in “colpe”.

Ritornando alla filosofia non possiamo non citare l’importanza dell’eros che per Platone è il mezzo necessario ad affrontare la salita che parte dal mondo sensibile verso quello delle idee. Eros è amore e ricerca della bellezza. Naturalmente per Platone l’amore è quello elevato che tocca l’anima e non quello fisico. Però in un’accezione più prosaica riusciremmo a capire meglio la bellezza se potessimo abbinarla al piacere erotico. Piacere che gli artisti hanno sempre preso in considerazione per tramutarlo in “bellezza”. Emblematica, a nostro avviso, l’opera del Bernini collocata nella cappella del Cornaro presso la chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma, ovvero l’Estasi di santa Teresa d’Avila. L’espressione rapita della Santa con gli occhi al cielo, la bocca aperta in una smorfia di piacere e l’angelo che sta per trafiggerla con una freccia esprimono la bellezza dell’opera attraverso la pulsione erotica che emana. Interessante notare che l’angelo “trafigge” la santa facendole assumere l’estatica, ambigua e bellissima espressione così come l’opera “trafigge” chi la guarda.

A questo punto vorremmo introdurre il concetto di valore dell’arte. Possiamo dire che risulta abbastanza difficile che qualcuno giudichi brutte opere come l’Estasi di Santa Teresa di Bernini o la Madonna del Cardellino di Raffaello o Il Clavicembalo ben temperato di Bach, ma siamo abbastanza sicuri che nutriti gruppi sociali avranno preferenze diverse, magari saranno più stimolati dalle opere di Banksy o dell’ultimo disco del trapper di turno perché ritenuti più “penetranti” esteticamente. Detta in questo modo pare che si stia proponendo una retorica culturale dagli esiti scontati. Ma non è così. Siamo veramente sicuri che l’arte impressionista sia meglio di quella pompier a cui si contrapponeva? La compiacente approvazione dell’accademia – e di buona parte della società francese del secondo ottocento – la pensava convintamente in modo diverso. Non potrebbe essere che il successo commerciale degli impressionisti a cavallo dei due secoli – anche e soprattutto negli Stati Uniti - non abbia definitivamente sancito la loro superiorità estetica? Questa provocazione in chiave postmoderna vuole solo sottolineare quanto le implicazioni che stanno al di fuori dell’oggetto artistico abbiano, a nostro modo di vedere, una rilevanza fondamentale che tende a relativizzare l’opera e rendere significante il contesto sociale ed economico del momento. Infatti il contesto sociale propone e ratifica ciò che deve essere considerato “bello” e questa tipologia di bello entra nelle menti delle persone e, a volte, si stratifica nel tempo fino a diventare ovvio. Non a caso nei mercatini rionali a volte troviamo bancarelle che vendono quadri dal sapore impressionista, e questo succede perché il mercante sa di fare centro nell’immaginario estetico mainstream.

Anche in architettura il concetto di valore del bello è ben espresso nelle scelte in cui sia necessaria l’esibizione stilistica. Il nostro lavoro dal titolo Ville, attraverso la proiezione di quaranta diapositive, cerca di rendere visibile la narrazione insita nelle ville postmoderne la cui estetica ne certifica l’omologazione necessaria per garantire visibilità e accettazione nella società contemporanea. La genesi di tale fenomeno si situa nell’imitazione delle scelte operate da persone facoltose che dopo il 1980, complice la teorizzazione del postmoderno in architettura da parte di Portoghesi, sdoganano consolatori stilemi rurali e vernacolari iniziando a ristrutturare casali. Dopo la mimesi iniziale assistiamo al fiorire di citazioni delle citazioni fino al raggiungimento di un’autonomia stilistica. Ma uno sguardo attento non può non notare la ricerca di un “valore semiotico” sufficiente ad esibire, attraverso “il bello”, il proprio status.

Il semiologo Cecoslovacco Jan Mukarovsky nel 1971 scrive il libro La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali analizzando dal punto di vista empirico quanto la società in cui prende forma l’opera d’arte sia importante per la sua valorizzazione. In sostanza sostiene, tra l’altro, che il valore dell’opera è determinato dalla classe intellettuale dominante. È ovvio quindi che tale valore è mutevole e, come la bellezza, non può essere normato. O meglio la norma può essere stabilita sapendo che sarà infranta dalla prossima opinione dominante.

Nei primi decenni del secolo scorso il prorompente pensiero di Duchamp rivoluziona il modo di percepire l’espressione estetica. In modo particolare ci riferiamo alle sue opere più famose i Ready made, nelle quali oggetto comuni, come ad esempio la ruota di una bicicletta, uno scolabottiglie o un orinatoio, quando vengono isolati dal loro contesto, perdono la funzione pratica a favore di quella estetica. A parte il significato provocatorio e di ridefinizione degli strumenti che legittimano il fare artistico, è interessante notare quanto “la bellezza” di tale operazione sta nel passaggio concettuale che Duchamp ci obbliga a fare eliminando, in buona sostanza, l’oggetto a favore del concetto. Infatti i ready made non sono sculture (o non devono essere considerati tali) ma dispositivi atti a farci riflettere su tutto ciò che viene considerato bello e perché. 

Bernini - Estasi santa Teresa

 

Raffaello - Madonna del cardellino

 

Duchamp - Fontana

Dallavalle Guerrieri - Ville

Dallavalle Guerrieri - Ville

 

Ci avviamo alla conclusione e ci rendiamo conto che abbiamo trattato l’argomento in modo un po’ schizofrenico (ci vorrebbe ben più spazio e cultura), abbiamo solo fatto qualche citazione e proposto qualche suggestione senza alcuna velleità di esaurire un argomento che di per sé è inesauribile, ma semplicemente per cercare di stabilire quanto il concetto di bellezza sia sfuggevole in generale e quanto l’arte in particolare sia, per sua natura, l’espressione tangibile di una ricerca che ha per oggetto il mistero ma che, senza svelarlo, parla chiaramente degli uomini, della società e del mondo da cui prende vita.