VISTA

PROGETTO DI PUBLIC ART “Vista”

Fotografie di architettura del secondo novecento con Qr Code di Google Maps


L’arte di formare, attraverso mezzi tecnico-costruttivi, spazi fruibili ai fini dei bisogni umani è il significato che il vocabolario Treccani dà all’architettura. Questa definizione è priva della parola “pensiero” sostituita dalla parola “arte”. Certamente non possiamo evitare di anteporre all’architettura in primo luogo un pensiero che non sempre possiamo definire arte; se per arte intendiamo qualcosa di nobile che possa o voglia uscire dalla norma convenzionale del costruire per gratificare in senso culturale e pratico chi ne fruisce. Siamo quindi indotti a pensare che esiste un’architettura di alto e una di basso profilo, o meglio, degli “spazi fruibili” che sono “arte” ed altri semplicemente manufatti. Ma in ogni caso “gli spazi fruibili” in primo luogo “sono pensati”. Questo pensiero determina come e dove costruire e dovrebbe considerare le implicazioni pratiche ed estetiche di chi utilizza la costruzione attivamente, ma anche di chi la utilizza passivamente. Se si passeggia all’interno di una città, si è soggetti passivi di un pensiero architettonico (di basso o di alto profilo) e se ne subisce l’influenza. A nostro avviso una forte influenza. Quindi in buona sostanza l’architettura è un medium che trasmette messaggi. Lo sapevano (e lo sanno) bene i dittatori che hanno usato a mani basse l’architettura per influenzare il popolo attraverso una messa in scena del loro pensiero. Esempi clamorosi sono le costruzioni sorte nella Germania nazista per opera di Spear, l’architetto personale di Hitler, che veicolarono, con il loro opulento classicismo filtrato dalla tradizione germanica, l’ideologia nazionalsocialista. Questa architettura si contrapponeva all’architettura “degenerata” e pericolosa ad esempio quella proposta dalla Bauhaus o quella razionalista di Le Corbusier. Lo stesso possiamo dire dell’architettura fascista, anche se in questo caso la lezione razionalista non è così invisa. Oppure è interessante osservare i grattacieli fatti costruire a Mosca da Stalin come risposta a quelli americani; altro non sono che inquietanti edifici neogotici che riflettono, per usare un eufemismo, un “pensiero” non proprio tranquillizzante, degni di svettare a Gotham City. Questi sono solo alcuni dei numerosissimi esempi che s’inoltrano nel tempo e nello spazio. Ma l’influenza che può esercitare l’architettura è molto forte anche in democrazia. Un portato di pensieri, e quindi messaggi, che alle volte possono essere omologanti. A tal proposito osserviamo il fenomeno delle villette costruite negli ultimi decenni in Italia (in particolare nel nord) che con il loro “rassicurante” postmoderno sono l’emblematica evidenza di un possibile pensiero unico veicolato dall’architettura. Questo pensiero fonda le sue radici nel credo degli anni ottanta in cui si usciva da un periodo di forte contestazione culturale a favore di un malcelato ritorno a un’estetica borghese che iniziava a riconoscere i valori architettonici della società contadina. Alla fine degli anni settanta la ricca borghesia (soprattutto milanese) acquista e ristruttura, profondendo notevoli risorse economiche, casali toscani che presto diventano status symbol. Certo, il postmoderno dilagante nel periodo è stato il motore di tale approccio ma l’esito mimetico che si è scatenato subito dopo per avvicinarsi a un’estetica di riferimento, a nostro avviso, ha altre motivazioni. Questa mimesi trova terreno fertile nell’immaginario di una società volta a dare credito al successo, alla ricchezza e all’idealizzazione di un edonismo distintivo che ha un esito ossimorico: la distinzione omologata. I committenti (con la complicità degli architetti) vogliono distinguersi, per affermare il loro status, adeguandosi a un’estetica riconoscibile, e apprezzata dai più, che inevitabilmente li omologa. Tal estetica propone stilemi rassicuranti, conosciuti, semplici, antichi; quelli della nonna, per esempio, che finalmente sono sdoganati. Assistiamo quindi a un fiorire di mattoni pieni, portici, antoni, archi, comignoli, pavimenti in cotto, coppi, ecc. Con il passare del tempo, questa impostazione stilistica passatista ha superato le motivazioni della sua genesi e si è imposta come classicamente consolidata in ambito mainstream. Tali suggestioni (declinate in altro modo ma con lo stesso esito emozionale) non sono un fenomeno solo italiano. Significativa a tal proposito è Celebration una città edificata in Florita nel 1994 dalla Disney dove si può comprare o affittare una casa per le vacanze. Le costruzioni sono state progettate secondo sei stili architettonici: classico, vittoriano, coloniale, costiero, mediterraneo e francese. La consolatoria banalità stilistica ha avuto un notevole successo perché portatrice di un immaginario foriero di poetica felicità. La prosaica caduta di stile non è percepita; è funzionale al sistema e non solo a quello disneyano. Abbiamo fatto qualche esempio (tra tanti possibili) per chiarire quanto il “medium” architettonico sia importante e influente. E come tutti i medium rischia di “essere il messaggio”. Per questo abbiano ritenuto necessario lavorare per porre interrogativi che tentino di mettere in dubbio ciò che è ritenuto scontato: in un paese come l’Italia che ha il più importante patrimonio architettonico storico al mondo, l'accettazione passiva di un paesaggio urbano contemporaneo si presume essere, poiché non meritorio, ininfluente sul pensiero.

 

Edificio principale Università di Mosca                                   1949/1953 (© Steven Pavlov)

 Celebration – (© Bobak Ha’ Eri) 

Serie ville - (© Dallavalle Guerrieri)

Per fare questo abbiamo scattato foto di edifici censiti dall’Istituto per i Beni Culturali dell’Emilia Romagna costruiti nel periodo 1945/2011 e progettati da architetti di fama nazionale e internazionale. Ogni foto contiene un QR Code che indica, attraverso Google Maps, l’esatta posizione e l’itinerario per raggiungere i punti di ripresa. Abbiamo evitato di fare scelte autonome ma ci siamo riferiti alle scelte dell’istituto preposto a dare un valore architettonico agli edifici fotografati. Potrebbero essere scelte non condivisibili ma, in ogni caso, un punto di partenza per innescare un processo. In primo luogo vogliamo sollevare il dubbio di quanto la fotografia sia uno strumento capace di rappresentare la realtà, o meglio quanto l’interpretazione fotografica possa essere esaustiva per rappresentare l’oggetto fotografato. Senza volerci addentrare in trite speculazioni corroborate da montagne di trattati su quest’argomento, riteniamo che la partecipazione attiva di chi vede le foto sia fondamentale per porre l’attenzione sull’edificio o il luogo fotografato e far scaturire un confronto autonomo rispetto alla fotografia medesima. In primo luogo gli scatti sono stati fatti utilizzando obbiettivi da 40/50 mm di focale per avvicinarsi il più possibile alla prospettiva che viene  considerata simile alla visione umana (in realtà la visione umana non può essere imitata dalla fotocamera), al fine di rendere più plausibile il confronto. Non solo, abbiamo riflettuto sul fatto che la prospettiva della macchina fotografica è falsata dall’inclinazione dell’obiettivo, fatto noto ai fotografi, meno noto è il processo fisiologico della vista. In buona sostanza l’occhio vede esattamente come il sensore digitale, in pratica con le linee convergenti verso l’alto, ma poi il cervello le raddrizza. Ma raddrizza solo quelle verticali mentre fa convergere quelli orizzontali (falsa la realtà oppure in una “visione” antropica quella è la realtà?). Quindi abbiamo cercato di ovviare “all’effetto trapezio” usando un obiettivo decentrabile uniformandoci esattamente a come il nostro cervello raddrizza le linee (non sempre esattamente verticali). In ogni caso per quanto abbiamo cercato di essere più documentativi possibile, ci siamo resi conto che le foto sono (alla fine) personali nell’atto stesso di ricercare l’obiettività e allo stesso tempo avere “dignità” fotografica. Insomma, abbiamo interpretato senza volerlo fare. In buona sostanza possiamo dire che l’esito è quello della segnalazione, come a dire: l’immagine proposta, più o meno, è il luogo che andrai a vedere. È questo il passaggio del progetto che riteniamo più importate: la visione del luogo o edificio fotografato; per tre motivi: la presa d’atto che quello è un luogo o un edificio riconosciuto come architettonicamente rilevante dagli studiosi e dall’autorità competente; il confronto con la poetica (se così si può dire) delle fotografie; l’osservazione dell’edificio tout court. Il primo motivo è importante perché si vedrà l’architettura moderna e contemporanea con occhi diversi, si dovrà fare uno sforzo autonomo cercando di uscire dai pregiudizi. Questo non vuol dire essere finalmente d’accordo con le scelte o meglio “il pensiero” dell’architetto che ha progettato ma il porre l’attenzione è già un passaggio fondamentale per vedere con occhi nuovi l’architettura. Il secondo motivo riguarda il confronto con le fotografie, dove è importante capire cosa “sia rimasto della foto” quando si vede il luogo. Terzo motivo è l’atto stesso del guardare che diventa parte essenziale dell’operazione artistica. L’edificio o il giardino o la fontana o il ponte, si trasformano, in forza della richiesta di visione da parte nostra, in un nuovo edificio, un nuovo giardino, una nuova fontana, un nuovo ponte. Siamo alle solite: l’osservatore cambia l’oggetto osservato se finalmente l’oggetto è visto. Lo sguardo “costretto” dell’osservatore produce una metamorfosi. In buona sostanza cambia l’approccio alla visione, quindi questo “oggetto”, poiché “nuovo”, si trasforma, oltre ogni implicazione feticista, nell’opera.

aldo rossi

enea manfredini

franco albini

franco albini

 

guido canali

italo jemmi .

guido canali

mario baciocchi

laboratorio architettura rinaldi, casarini, davoli

marcello spigaroli .

renzo piano .

studio monti